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 La certezza del non ritorno –  Seminario sulle culture diasporiche di Gianni Morelenbaum Gualberto 

Il termine ”diaspora” viene spesso usato in modo impreciso, a definire spostamenti massicci e traumatici di popoli, un errore che in parte è dovuto alla percezione impropria ma comunque drammatica di un fenomeno il cui ricordo va narrato all’interno dei suoi esatti confini per poterne valutare con esattezza l’imponente portata.

La diaspora possiede una sua irrimediabile personalità, una sua tragica grandezza rispetto alle migrazioni, alle deportazioni, alle fughe di etnie e popoli, ai nomadismi più o meno spontanei succedutisi nella storia del genere umano: in essa non vi è la possibilità del ritorno, la cui speranza è spesso tenuta in vita simbolicamente, come fattore di aggregazione resistenziale. Nella stessa Diaspora ebraica, la più significativa e tragica, l’idea del ritorno (spostata in avanti di anno in anno: “L’ShanaHaba’ahB’Yerushalayim”, ‘l’anno prossimo a Gerusalemme’, come s’intona per il seder di Pesach e a Yom Kippur) era intrinseca, nella sua apparente impossibilità, alla ritualità del credo religioso che, peraltro, ha fatto da collante nel preservare l’unicità dell’esperienza ebraica. Forse persino più irrimediabile l’esperienza vissuta dalla Diaspora degli africani e dei loro discendenti in Europa, in Asia, soprattutto nelle Americhe: segnata quasi indelebilmente per più di tre secoli nella psiche come nel fisico dalla schiavitù, proveniente da luoghi geografici diversi e da contesti sociali tribali spesso ostili fra di loro, divisa pure da diversità religiose, è stata privata definitivamente della possibilità di un ritorno in aree in cui si sono sedimentate altre esperienze umane, politiche, etniche, sociali che impediscono una qualsiasi possibilità di riunificazione a popolazioni integrate, se non del tutto assimilate, nei luoghi di schiavitù.

Le Diaspore sono inoltre eventi traumatici che di rado si considerano aldilà di quanto abitualmente e oscuramente esprimono nell’immaginario collettivo: se la “dispersione” delle diverse tribù africane appartenenti a differenti etnie avviene all’insegna di un sincretismo che, per quanto produttivo e significativo (basti pensare in termini culturali alla presenza africana nelle diverse tradizioni culturali delle Americhe), è altro segnale di una perdita di parte della propria identità in un interscambio obbligato o forzato, la “dispersione” degli ebrei riesce, grazie alla stabilità concessa dalla comune pratica religiosa, a mantenere un’”identità” tenacemente conservata fino ai giorni d’oggi, pur fra una molteplicità di esperienze presenti pressoché dovunque. Ciò non significa che tali processi di stabilizzazione segnassero un’assenza o una diminuzione di fatti cospicuamente traumatici: così come la vendita degli schiavi, con la frantumazione dei nuclei familiari e delle strutture culturali, imponeva un ulteriore processo diasporico all’interno di quello principale, le persecuzioni degli ebrei, già avviate nell’impero romano, hanno segnato in Occidente e, per quanto meno sistematiche, nel mondo arabo, una frattura con il mondo ebraico che la Shoah ha reso definitiva, contribuendo inoltre ad accelerare la creazione dello Stato di Israele e, con tutti i simbolismi che ne conseguono, un ritorno stabile della popolazione ebraica in EretzYisrael.

I trasferimenti forzati degli africani e i loro discendenti africano-americani trattati come merci rispondevano in qualche modo ad un processo colonialista (la fine della Segregazione negli Stati Uniti, ad esempio, con la parità a lungo effimera di diritti civili, è stata in parte vissuta dagli africano-americani come un atto di de-colonializzazione), laddove la Diaspora ebraica ha avuto una sistematicità e una continuità, anche nel replicarsi delle persecuzioni, che hanno imposto una proliferazione di “esilî” e, perciò, un costante e drammatico decentrarsi, spesso in zone di non minore intolleranza antisemita o in cui la presenza ebraica non era più in grado, fisicamente ed economicamente, di accogliere nuovi arrivi di correligionari: l’innescarsi di sub-diaspore conflittuali e destabilizzanti (ad esempio, in Russia, in Polonia) veniva ad aggravare condizioni di vita già precarie di per sé, rappresentando un peso psicologico ulteriore ed evidente. In tale contesto, le comunità venivano a polverizzarsi e, attraverso cicli migratori di massa, era costrette a trasferirsi, replicando le proprie fisionomie culturali negli Stati Uniti, in Argentina e Brasile, in Palestina: il loro riferimento d’origine, assai meno religioso rispetto all’esilio originario e storico, rimaneva ancorato alla dimensione culturale di recente provenienza.

Delineare una Wirkungsgeschichte delle due grandi Diaspore storiche (cui, per affinità e entità di risultati, andrebbe affiancata anche la Diaspora armena, dopo il 1375 e dopo il 1915) è ancora oggi impresa ardua, non solo per la loro estesa ramificazione ma per il numero di sincretismi che hanno prodotto, per l’influenza che in diversi momenti hanno esercitato e esercitano in più ambiti laddove si sono dislocate, per la negoziazione costante fra integrazione e assimilazione, per i rapporti che hanno intrattenuto e continuano a intrattenere, pur fra dinamiche compresse e alterne, fra di esse.

Per rimanere a un ambito semplicemente musicale (ma di alto significato per ambedue le realtà diasporiche principali), la loro produzione è stata, in periodi peraltro coincidenti, di radicale importanza, attraversando, in realtà diverse soprattutto fra l’Europa e le Americhe, tutto l’Ottocento e il Novecento, arrivando a condizionare i primi decenni del XXI secolo. Questo rilievo non è avvenuto per vie “nazionali” (non significative in nessuno dei due casi in ambito -diciamo così- “istituzionale”), bensì attraverso il risultato di più stratificazioni di sincretismi.

È necessario perciò seguire almeno un doppio percorso contemporaneo per poter distinguere l’articolazione e l’evoluzione identitaria e pluri-identitaria dei fenomeni in esame, che in più occasioni, nel Nuovo Mondo, hanno avuto occasione di interagire strettamente.A ciò si aggiunga che in contesti poli-etnici, in cui la resistenza delle abitudini culturali (spesso intese come “tradizioni”) si fa più flessibile e permeabile e l’alterazione della propria identità culturale è un fatto costante, la cosiddetta “fluidità” dei generi ha aggiunto un altro dato di cui tenere conto, stimolando ulteriori sotto-gruppi sincretici.

Così come gli africano-americani lungo tutto l’Ottocento furono per gli americaniintrattenitori o personaggi esposti al ludibrio, con la creazione perversa del cosiddetto “minstrelsy”, teatro musicale popolare in cui bianchi travestiti da africano-americani parodiavano questi ultimi (fino ad arrivare a far truccare successivamente degli artisti africano-americani non sufficientemente negroidi in modo da apparire adeguati agli stereotipici circolanti), inizialmente la prima ondata d’immigrazione ebraica (già usa da tempo alla parodia antisemita e ai suoi stereotipi fisici), a fine Ottocento (per quanto la presenza ebraica negli Stati Uniti si segnali già nel 1654/55, nella giovane Nuova Amsterdam), si riversò nell’entertainment, soprattutto nel teatro musicale e nelle varie forme di musica sincopata che dovevano presto condurre al jazz (altro contesto dove gli artisti ebrei hanno tradizionalmente affiancato, in numero esorbitante, lo sviluppo delle estetiche

afrocentriche): l’incontro complesso fra il mondo ebraico e quello africano-americano -pur fra dinamiche non sempre lineari- doveva condizionare per molti anni a venire le due comunità (gli ebrei americani furono fondamentali nel sostenere e finanziare i movimenti per i diritti civili). Al mondo del jazz, ad esempio, i song-writerebrei di Tin Pan Alley avrebbero donato un materiale musicale rivelatosi indispensabile, i cosiddetti “standard”, mentre l’estetica improvvisativa africano-americana trasformava una musica popolare ebraica già non poco meticciata come il klezmer in quel fenomeno del tutto ebraico-americano che è stato ed è il cosiddetto “Yiddish Swing”, contribuendo, a partire dagli anni Settanta, ad aprire le porte alla futura Jewish Radical Music.

Lo sviluppo identitario della Diaspora africano-americana (in cui era da tempo consolidato anche il credo religioso di rito anglicano), riversatosi poi in una creatività che doveva alterare l’intera cultura statunitense (e non solo), nell’incontro con la Diaspora ebraica inizia ad adottare strategie e tattiche di resistenza culturale che gli ebrei avevano già messo a punto soprattutto da quando, con la concessione, fra il 1791 e il 1842, dei pari diritti in Francia, nei Paesi Bassi e in alcuni stati della Germania (l’unica nazione che in Europa garantiva l’uguaglianza agli ebrei era la Polonia, dal 1264), avevano potuto fiorire culturalmente (si pensi ai noti salotti culturali ebraico-berlinesi di Henriette Herz e di Rahel Levin Varnhagenvon Ense) ed economicamente.

Molto altro accadeva all’esterno di tale connubio afro-ebraico e della nascita di una cultura afro-semita che ancora oggi sviluppa un pensiero esteso e complesso, ma l’incontro fra due diaspore simili e dissimili in modo marcato, avviene unicamente nel laboratorio etnico delle Americhe (il tradizionale antisemitismo inglese, ad esempio, aveva a lungo impedito l’incontro fra la cultura ebraica e quella africana e afro-caraibica), con risultati di particolare interesse (per quanto spesso arginati o ritardati dal tradizionale antisemitismo di matrice ispanica) anche a Cuba (dove la Diaspora ebraica sviluppa anche un ramo sino-afro-ebraico), Messico, Argentina e Brasile (dove la tradizione ebraica si coniuga per secoli con la forte influenza africana, agendo non poco nel campo intellettuale (Carlos Drummond de Andrade, LygiaFagundes da Silva Telles, Clarice Lispector), teatrale (Deborah Colker, Hector Babenco, Otto Maria Carpeaux) e musicale sia accademico che popolare, basti pensare a artisti come Jacob do Bandolim, Antonio Carlos Jobim, Chico Buarque de Hollanda, Marisa Monte,Beth Carvalho,Juca Chaves, IthamaraKoorax, LéoGandelman e molti altri.

La Diaspora ebraica (peraltro fortemente legata a quella armena) ha naturalmente lasciato tracce fondamentali in India e nel mondo arabo, più recentementein Cina, tralasciando ovviamente il legame che si pensava inscindibile fra essa e l’Europa, ma sviscerare compiutamente un tale ramificato percorso, anche limitandosi al solo pensiero musicale, è impresa ovviamente difficile. L’esame dell’incontro/scontro con l’altra Diaspora storica permette di affrontare invece una serie di sviluppi sincretici e identitarî inusitati, che hanno inciso radicalmente su processi, nel caso della Diaspora ebraica, consolidati da secoli: perché nell’incontro ravvicinato e vissuto quotidianamente con le alterazioni subite dalla cosmogonia africana e dalla sua narrazione, il “galut” (l’Esilio ebraico) incontra parte di sé nell’altro da sé, rivivendo l’attrazione anche fisica di Shlomo per la regina di Sheba. Al contempo, la Diaspora africana-americana, non meno intrisa di quella ebraica di stereotipi e diffidenze, riscontra affinità impensabili perse nella memoria dei rapporti fra Africa, Islam, Medio Oriente, vede nella popolazione ebraica emigrata negli Stati Uniti un contesto quasi-bianco che, pur non essendo bianco, è in grado di dialogare culturalmente con le varie e numerose componenti del mainstream americano, trasferendo parte di tali conoscenze alle comunità africano-americane.

Nel Nuovo Mondo (intendendosi anche l’America Latina) ambedue le Diaspore subiscono forti mutazioni identitarie, avvicinandosi e distanziandosi secondo i diversi percorsi e interessi economici, politici e sociali, ma rimanendo in contatto per diverse forme di attrazione che, con la fluidità di genere, si sono ulteriormente acuite e intrecciate, proponendo costantemente, nei rapporti con le varie correnti migratorie insediatesi negli Stati Uniti, sviluppi artistici impensati.